Charli-E

18 novembre 2008

Ho visto Wall-E.

Tutto il film mi è parso molto bello; ma la parte iniziale, tutta senza parole, è sconfinatamente bella, oltre che stilisticamente molto coraggiosa. Una delle cose più belle in assoluto che io abbia mai visto, sia dal punto di vista concettuale, sia dal punto di vista visuale.

Solo una volta ho visto un tale esercizio di straniamento così agghiacciante e commovente rappresentato al cinema, un simile scollamento tra

– microcosmo esistenziale individuale

(così inconsapevolmente sereno, così assurdamente permeato da immutabili consuetudini quotidiane e compiti da svolgere, immani ma del tutto inutili e astratti, così maniacalmente attratto dalla bellezza del particolare e così istericamente cieco alla bruttezza del tutto),

– e realtà circostante

(così puramente orrorifica):

in alcuni film di Charlie Chaplin.

Wall-E è, secondo me (tutto è secondo me, per cui non lo dirò più), quanto di più simile a Charlot il cinema moderno abbia prodotto. Invece di fare barbe e capelli nel buio della notte hitleriana, impila cubi di lamiera compressa nel buio della notte post-cataclismica; la sua inconsapevolezza è cibernetica invece che fisiologica, ma il suo buffo e inconsapevole incedere nella tragedia fa ridere e piangere allo stesso modo di quello del piccolo barbiere ebreo senza nome del Grande dittatore.

(Aveva un nome, il piccolo barbiere ebreo? io non me lo ricordo, e Google non mi aiuta).

Del resto, tutta l’ultima opera della Pixar mi sembra, a ben guardare, una riflessione etica e politica sulla condizione umana, messa in scena con uno schema affine a quello che usò Chaplin nel Grande dittatore.

Nella prima parte dei film, la rappresentazione lucida e sconfortante della realtà immanente: quella esistenziale, come negli Incredibles, con la messa in scena dell’alienazione annichilente cui è soggetta la classe media americana (occidentale?): la frustrazione dei talenti, il controllo sociale, la gestione criminal-maniacale dei rapporti di forza all’interno dei luoghi di lavoro, l’arroganza e le piccole ingiustizie nei confronti dei deboli e degli indifesi (la scena della vecchietta che deve riscuotere la polizza assicurativa è bellissima).

Quella economica, con la messa in scena della devastazione di Radiator Springs in Cars, metafora della fine del sogno americano e della crisi economica che ha ferito in modo probabilmente irrimediabile l’America profonda, da quando i soldi hanno preso a girare su altre strade.

Quella politica e ambientale, con la messa in scena, in Wall-E, della Terra devastata e desertizzata dalle stesse multinazionali che, poi, traggono dalla necessità di abbandonare il pianeta ulteriori fattori di business e di sopraffazione.

(Anche Walt Disney-Pixar è una multinazionale? Che cazzo c’entra questo con l’etica e l’estetica? Anche Saviano viene editato da Berlusconi).

Pixar rappresenta la realtà con lo stesso modo in cui Chaplin, nella prima parte del Grande dittatore, rappresenta la realtà quotidiana (esistenziale, economica, politica) della Germania nazista. Senza indulgenze, senza speranza.

Questa, paiono dire all’inizio la Pixar e Charlie Chaplin, è la situazione.

Poi, entrambi abbandonano il principio di realtà, il lucido pessimismo e il rigore analitico, introducendo nelle loro messe in scena i due elementi su cui è incardinato (su cui era incardinato, direi meglio; ora non più: ne parlerò un’altra volta, magari, quando cercherò di mettere per scritto alcune cose che ho pensato leggendo No Country For Old Men e Lunar Park, due libri immensi e immensamente tragici, devastati e melanconici) il modo di pensare americano alla Storia.

Anche se i tizi della Pixar, a vedere i nomi, sono, probabilmente, un branco di fricchettoni radicali fumati di origine ebraica o estremo-orientale, e Chaplin era un inglese marxista, sono due elementi talmente utili a costruire storie bellissime, e hanno talmente permeato di sé il cinema classico, da essere per entrambi (per motivi diversi) un elemento inevitabile per costruire delle loro avventure:

– La fiducia sconfinata nel potere dell’individuo di agire sulla Storia stessa; nella possibilità che il coraggio (ma, più che il coraggio, la presa in carico e l’assunzione totale di responsabilità da parte dell’individuo nei confronti del sistema di relazioni dentro cui è inserito) possa cambiare fattualmente e beneficamente il corso dei macroeventi.

– L’idea che la Storia, proprio come una Magnum 44, abbia una parte giusta e una sbagliata rispetto alla quale guardarla; che alla Storia sia sotteso un Disegno provvidenziale; che il corso degli eventi, purché gli individui che ne sono protagonisti (quelli schierati dalla parte giusta, naturalmente) non perdano fede e coraggio, e si assumano pienamente le responsabilità portate dal loro compito, sia naturalmente destinato a indirizzarsi per il meglio.

Poi, l’eroe si rimbocca le maniche e rimette le cose al loro posto: nel momento in cui Charlot, Bob Parr, Wall-E e Lighting McQueen abbandonano il loro autocentrismo e riconoscono alla loro possibilità di azione un valore etico e sociale universale, improvvisamente le cose cominciano a andare bene, e il coordinato disposto tra inverosimili e provvidenziali concatenazioni degli eventi e coraggio individuale conduce, inevitabilmente, al lieto fine; non per astratto buonismo, ma per concreta convinzione; perché è così che deve essere, e non potrebbe essere altrimenti.

Il problema è che, ormai, a questa etica non crede più nessuno.

E gli Americani sanno benissimo.

Riflettono su queste cose, sul senso della Storia, molto più di quanto non facciamo noi, perché noi siamo fuori da troppo tempo dal Flusso Principale degli Eventi, ne abbiamo paura, riteniamo volgare averci a che fare e bambinesco volerci avere a che fare, perché le le ultime volte che abbiamo cercato di averci a che fare abbiamo combinato dei bordelli colossali. (Non che sia facile non combinarli, cercando di farlo, eh).

Come avevo accennato prima, No Country For Old Men, e, in particolare, il cincischiare volenteroso, lucido, disilluso, del tutto senza costrutto e irritante dello sceriffo Bell (un cincischiare che è l’esatto contrario concettuale dell’agire dell’eroe solitario che risolve la tragedia nel cinema classico americano, da Tom Mix a Clarence Sterling a Wall-E) è, secondo me, la presa d’atto definitiva, del tutto consapevole, della fine di quel modello, del fatto che quell’idea delle storie e della Storia sia divenuta irrappresentabile.

La presa d’atto definitiva dell’impotenza dell’individuo di fronte all’invincibilità del Male, perché quest’ultimo è diventato (è sempre stato, direbbe un Europeo gnostico e disilluso come me) un fattore ontologico dell’ecosfera sociale politica, economica e esistenziale umana.

Capisco, però, che i ragazzi della Pixar abbiano delle responsabilità, così come le aveva Chaplin prima della Grande Tragedia; che ai bambini di oggi e al Mondo del 1940 non è che si possa dire chiaramente che non c’è più nulla da fafre.

Gli si può far vedere com’è brutta la situazione, magari, ma non lasciarli, alla fine, con l’idea che tale bruttezza sia irredimibile.

E, sotto sotto, facendo finta di nulla, anche a me piace illudermi che non sia così. E alla fine, magari, farmi anche venire un luccicone.